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Intervista a Luciano Tarricone, professore ordinario di Campi elettromagnetici presso l’Università del Salento, sui temi del cosiddetto “inquinamento elettromagnetico”.
In questi giorni è tornato d’attualità il progetto “Lecce wireless”, finalizzato a garantire attraverso una moltiplicazione di hotspot sui tetti della città l’utilizzo del wi-fi gratuito e un migliore accesso alla rete per i cittadini. Tuttavia, sono diverse le perplessità di carattere ambientale sul progetto, espresse in particolare dal comitato “Lecce via cavo” e da quanti sono preoccupati del cosiddetto “inquinamento elettromagnetico”. Abbiamo intervistato il professor Luciano Tarricone, ordinario di Campi Elettromagnetici presso l'Università del Salento, per approfondire il tema delle nuove tecnologie e del sovraccarico di connessioni in relazione ai possibili problemi legati all’impatto ambientale e alla salute.
Professore, in questi giorni in città si discute del progetto “Lecce wireless” che ha garantito più di ottanta hotspot sul territorio e ne prevede altri 350 per permettere ai cittadini l’utilizzo del wi-fi gratuito e un migliore accesso alla rete. Ragionando fuori dal caso specifico e dentro il contesto di una società immersa nelle nuove tecnologie e in perenne connessione, ci s’interroga sugli effetti delle reti wi-fi.
“Innanzitutto non conosco nello specifico il progetto citato. Per ragionare in termini scientifici occorre partire da un fatto: in generale, le varie reti wireless funzionano ricorrendo all’uso di varie categorie di antenne. Ad esempio, le antenne per stazioni radio base (quelle che vediamo tipicamente sui tralicci), hanno di solito livelli di potenza utilizzati più consistenti e hanno il compito di coprire alcune porzioni del territorio; altro esempio sono le antenne utilizzate dalle unità mobili, i nostri cellulari, che hanno caratteristiche leggermente diverse, sono di solito più piccole e lavorano con livelli di campo irradiato più contenuti, ma si trovano spesso a operare in stretta prossimità del corpo umano e nella maggior parte dei casi della testa”.
Fatta questa premessa, le reti wi-fi possono rappresentare un problema?
“Parliamo di fenomeni su cui il ragionamento va fatto in termini di relazione dose – effetto. Noi siamo esposti ad un certo agente fisico, in questo caso il campo elettromagnetico, e gli effetti potenzialmente indotti sono fortemente legati alle dosi che di questo agente fisico si depositano nel nostro organismo. Ma questo non significa che nella realtà i ragionamenti intuitivi o ovvi siano anche corretti”.
In che senso?
“Faccio un esempio pratico: s’immagini di utilizzare il suo cellulare in un punto del territorio nel quale il segnale che il suo cellulare riceve dalla stazione radio base è relativamente basso. Cosa succede? Il cellulare, per come è progettato il sistema, deduce (a torto o a ragione) che la stazione radio base che emette il segnale sia difficilmente raggiungibile, vuoi per la distanza o per altre ragioni; a quel punto il cellulare lavora con il massimo livello di potenza che può utilizzare e irradia più di quanto non farebbe in altre circostanze, col risultato che si ha in prossimità della testa una sorgente che irradia più del dovuto e magari, a centinaia di metri, esiste un’altra sorgente che sta irradiando meno di quanto probabilmente potrebbe”.
Provando a semplificare il principio?
“Siccome si tratta di un problema nel quale pesano le dosi cui è esposto il singolo soggetto, i casi specifici vanno analizzati con un certo livello di attenzione. Il tema non si presta a essere trattato in maniera semplicistica, perché situazioni di esposizione che a volte vengono sottovalutate meritano attenzione e altre, ritenute degne di grande attenzione, potrebbero essere gestite in maniera più semplice”.
Quali allora le scelte corrette nei confronti di queste reti?
“Se guardiamo agli aspetti strettamente legislativi e a meno che uno non metta l’antenna del router di casa sul cuscino, gli apparati domestici sono perfettamente rispondenti ai parametri di legge. Anche se questi limiti di legge sono rispettati, è buona prassi, ed è suggerito dalla ricerca scientifica, adottare quello che l’Unione Europea definisce come principio di precauzione. Bisogna, insomma, avere una serie di accorgimenti che permettano l’utilizzo dei servizi con adeguata qualità e contemporaneamente portino a situazioni di esposizione cautelative. La scelta corretta, anche da un punto di vista scientifico, è quella di adottare un approccio consapevole all’uso di questi strumenti”.
Nel concreto cosa significa avere un approccio “consapevole”?
“Significa avere un’idea abbastanza chiara di come funzionano da un punto di vista fisico le tecnologie che adoperiamo e adottare dei criteri di uso che, a volte, possono essere estremamente semplici, ma che devono appunto rispondere all’applicazione del principio di precauzione”.
Chi si oppone alla moltiplicazione delle installazione di hotspot fa riferimento a una serie di pareri scientifici sul rischio di inquinamento elettromagnetico. È un’opposizione legittima?
“I casi, come detto, vanno studiati in maniera concreta e specifica. Talvolta, a seconda della conformazione geografica del territorio e delle città, frammentare l’infrastruttura wireless in un numero maggiori di unità e antenne, stazioni radio base, hotspot non è necessariamente sotto l’aspetto dell’impatto ambientale un danno. In alcuni casi, numeri alla mano, se invece di installare tre antenne che emettono maggiore potenza ne installo dieci che emettono singolarmente di meno, potrei averne un vantaggio in termini di distribuzione del segnale e contenimento dell’esposizione. Così come in altri casi, invece, potrebbe non esserlo. Ripeto: il tema non si presta a semplificazioni o a una visione giacobina, perché i problemi scientifici sono complessi e vanno affrontati in maniera quantitativa e non discorsiva”.
E, quindi, come ci si orienta per evitare improprie semplificazioni sul tema?
“Ci sono gli strumenti teorici e pratici per stabilire, a seconda delle situazioni, quali sono gli approcci più corretti. La prima risposta, pertanto, è che non ci sono risposte a scatola chiusa, ma esistono gli strumenti per dare delle risposte quantitativamente corrette alla domanda. Non c’è un’unica politica sempre migliore di un’altra, perché siamo di fronte a un agente fisico, il campo elettromagnetico, che si propaga e può incontrare ostacoli e che risponde a questa interazione in maniere note ma diverse, proprio in virtù delle situazioni e delle tipologie di ostacoli che incontra, o delle caratteristiche del segnale stesso”.
Che cosa s’intende quando si parla di “inquinamento elettromagnetico”?
“Intanto, nella comunità scientifica è raro che si parli in senso stretto di inquinamento elettromagnetico, però, visto che l’opinione pubblica inquadra il tema utilizzando queste parole, le usiamo. Di cosa parliamo? Parliamo del fatto che questo agente fisico, chiamato campo elettromagnetico, quando interagisce con sistemi viventi può provocare all’interno di essi alcuni effetti. A seconda delle frequenze del campo elettromagnetico in questione, vengono eccitate delle correnti elettriche all’interno degli organismi bersaglio, o si hanno degli effetti di riscaldamento esattamente con lo stesso principio con cui funziona un forno a microonde (riscalda perché riscalda molto efficacemente la parte liquida contenuta nei tessuti biologici). Non è però tutto. Infatti, oltre agli effetti citati, ce ne possono essere altri di natura non termica. In sostanza, quando parliamo di inquinamento elettromagnetico, si fa riferimento all’interazione tra il campo elettromagnetico e i sistemi biologici, e a quelle conseguenze non volute e non benefiche che si possono produrre se si superano determinate dosi. La ricerca scientifica sta ancora lavorando per capire quali possano essere i limiti all’esposizione elettromagnetica che permettano di controllare i rischi dovuti agli effetti non termici, mentre ha già dato risposte per le correnti indotte e gli effetti termici”.
Dalle sue conoscenze, esistono zone di rischio a Lecce?
“Ho fatto in passato campagne di misura anche a Lecce, ma le ultime risalgono a cinque o sei anni fa. Non ho dati aggiornati, ma ricordo che, all’epoca, c’erano delle zone sulle quali era opportuno mettere l’attenzione. Si tratta però di dati abbastanza obsoleti, che andrebbero aggiornati”.
La sovraesposizione tecnologica non risparmia oggigiorno neanche i bambini. È lecito fare maggiore attenzione nei loro confronti e possono risultare soggetti più a rischio?
“Dal punto di vista scientifico, le ragioni per cui ha senso avere una particolare accortezza nei loro confronti sono anatomiche, in quanto la scatola cranica di un bambino è elettromagneticamente diversa da quella di un adulto, e questo si traduce in una ridotta capacità schermante rispetto ai campi elettromagnetici, soprattutto per alcune frequenze. Ha senso pertanto un uso moderato e attento di questi mezzi da parte dei bambini e, direi, consapevole da parte dei genitori. C’è poi altro, oltre l’aspetto elettromagnetico. In realtà, il dato che le neuroscienze danno per acquisito è che un effetto dannoso dell’uso sfrenato di alcune tecnologie da parte dei bambini è quello cognitivo”.
Quando parla di effetto cognitivo a cosa si riferisce?
“All’incapacità di mantenere una soglia di attenzione almeno adeguata per qualche minuto su un determinato argomento, alla difficoltà di apprendimento e alle metodologie di apprendimento, all’uso della parola scritta, letta e parlata: senza una padronanza adeguata del linguaggio, non si può imparare perché non si riesce a pensare. Non si progredisce. Non si cresce. Sono tutti aspetti che possono essere intaccati dall’abuso di questi strumenti, che, da un lato, possono rivelarsi preziosissimi, e contemporaneamente levarci tanto. È questo il problema posto da molte tecnologie che utilizziamo, e per la verità, non solo dal wireless”.
Cosa fare allora in definitiva?
“Le racconto un aneddoto personale, a suo modo divertente. Ho due figli, uno di 22 anni e l’altra di 20, che potremmo definire dei digitali nativi. D’abitudine anche loro, quando erano ragazzini, spesso e volentieri si addormentavano col cellulare a tre centimetri dalla testa nonostante i miei richiami. Quando glielo facevo notare, mi rispondevano: “Zitto tu che di queste cose non ne capisci niente”. A parte la fisiologica difficoltà del mestiere di genitore, ritengo che l’educazione alla conoscenza, alla visione critica e alla consapevolezza (non solo nell’uso delle tecnologie) siano gli atteggiamenti concreti da assumere e trasmettere”.
Mauro Bortone